Un Giglio del Tabernacolo

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Le prime luci dell’alba illuminano la vetta del Cimone e si stendono man mano sull’altipiano vicentino.

Sulla strada deserta che porta alla chiesa un fanciullo è tutto ascolto, tutto sguardi qua e là sulla natura che si risveglia, mentre sgambetta veloce con le scarpe in spalla.

È Carletto. Tutti lo conoscono in paese, tutti salutano volentieri quel bambino dal visetto tondo sempre aperto al sorriso, dagli occhi vispi e dolci, che ha sempre i riccioli scompigliati per l’impulsiva vivacità.

La mamma ripete spesso a chi le parla di lui: “El me Carleto! El xe tuto spirito; speremo che el se calma!”.

Eppure quando sale l’altare vestito da chierichetto, tutti notano la sua compostezza semplice e raccolta, consapevole che sta per compiersi qualcosa di grande.

Eccolo giunto alla chiesa: si rimette le scarpe ed entra. L’amore ardente per Gesù Eucaristia che sarà il centro vitale, il fulcro luminoso della sua spiritualità e della sua missione, ha la sua radice qui, nell’incontro eucaristico quotidiano.

D’estate, d’inverno, con il sole, la pioggia o la neve che d’inverno abbonda ad Arsiero, Carletto divora d’un fiato quel chilometro e più di strada che dalla casa porta alla chiesa.

“Gli piaceva tanto vestirsi da chierichetto e servire Messa”, ricorda la sorella Renata.

Finita la Messa, sosta qualche istante davanti all’altare della Madonna, poi corre a casa per un po’ di colazione alla svelta ed eccolo di nuovo in strada – scarpe in spalla – per andare a scuola. Così ogni mattina.

Sapeva quanti sacrifici erano costate quelle scarpe e voleva farle durare il più a lungo possibile.

Carletto è il primo di quattro fratelli della famiglia De Ambrogio. Papà Pietro di Varrallo Pombia (Novara) aveva messo su casa ad Arsiero, paese nativo della sua sposa, la signora Lucia Augusta Carollo.

 In quegli anni dopo la prima guerra mondiale, un modesto falegname come lui faticava a trovare lavoro ed egli si adattava a cercare qua e là qualsiasi occupazione.

Intanto il 1921 segnò per loro una grande gioia: la nascita di Carletto, il primogenito.

Nasceva proprio il 25 Marzo, festa dell’Annunciazione del Signore, il venerdì santo di quell’anno alle 14 e 30, l’ora in cui, nel primo venerdì santo, Gesù dalla croce donava la Madre al discepolo prediletto.

Carletto, divenuto poi Don Carlo, porterà sempre nel segreto del cuore la luce di questa coincidenza. Le due Annunciazioni di Maria – la prima da parte dell’Angelo Gabriele che la rese madre di Dio e la seconda presso la croce da parte di Gesù che la rese Madre della Chiesa, Mamma di ciascuno di noi – saranno la realtà spirituale che tesserà in filigrana tutta la sua vita e la sua evangelizzazione.

Dopo qualche giorno dalla nascita, e precisamente lunedì 3 aprile, Carletto fu battezzato nella chiesa parrocchiale.

Intanto le difficoltà finanziarie aumentavano e il papà con l’appoggio di un compaesano pensò di emigrare con la piccola famigliola in Francia. Ad Asnières – sur Seine (vicino a Parigi), dove aveva trovato un impiego come falegname, la vita era dura. Abitavano in una baracca e per tirare avanti la mamma portava Carletto all’asilo-nido e cercava di lavorare qua e là riuscendo a malapena a raggranellare qualcosa da aggiungere al misero stipendio del marito. Al disagio della povertà si aggiungeva quello dell’umiliazione, perché gli emigrati italiani erano allora guardati con diffidenza e disprezzo.

Anche se in tenera età, Carletto – che rivelava già un intuito perspicace non comune – avvertiva il clima depresso e ne soffriva. Reagiva anche. Infatti un giorno – aveva poco più di tre anni – sentendosi burlato da una signora francese che lo apostrofò: “Petit macarony” (piccolo maccherone), punto sul vivo raccolse una doppia manata di terra e sassi e la gettò a tutta forza contro i vetri di quella casa, mandandoli in frantumi. Alla mamma che lo rimproverava per il piccolo disastro, disse ancora rosso in viso per l’indignazione: “Ma mamma, io non sono un maccherone!”.

La mitezza e la dolcezza che distingueranno il tratto e la parola di Don Carlo non erano dunque innate, ma frutto di Spirito Santo e di rinnegamento continuo della sua natura sensibile e pronta.

“Non è mica nato santo mio fratello – sottolinea la sorella Renata che più di tutti gli è stata vicina – ha sofferto per diventarlo”.

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